Anteprima italiana: la recensione di "Rock or Bust"

ROCKORBUST

Di Gabriele Staff AC/DC Italia e Diego “GibsonSG”.

Inutile star qui a ribadire per la miliardesima volta l’importanza storica degli AC/DC, il gigantesco potere di appartenenza che conferiscono ai loro fans, la loro totale devozione al genere di cui sono da generazioni leader indiscussi, ma soprattutto l’oramai consolidata e cementificata aura di eterna certezza indissolubile del rock’n’roll. Ed è proprio il termine “indissolubile” che gioca un ruolo fondamentale in questo nuovo attesissimo album, e ci è personalmente impossibile scrivere una recensione (seppur dopo solo un unico ascolto) senza prima riflettere un secondo sul perché questo album sia quello che è, ovvero un gradevole disco di rock’n’roll, da parte di una band che è sempre stata affidabile e garante di una magia che, nonostante la non negabile ripetitività, sia sempre stata in grado di creare quel qualcosa che per altri sarebbe impossibile dopo 40 anni: la CREDIBILITA’.

Come dicevamo, abbiamo avuto la possibilità di un ascolto in anteprima all’inizio del mese di Novembre presso gli uffici della Sony Music Italy (che ringraziamo per l’opportunità), ma anche solo da questo si ha un’idea molto chiara dell’album nella sua interezza. Tralasciando i già editi singoli “Play Ball” di cui abbiamo apprezzato il riff e la granitica “Rock or Bust”, addentriamoci meglio attraverso gli altri brani.

“Rock the blues away” ricorda subito “Anything Goes”, che con quest’ultima condivide un certo mood FM, molto indicata come singolo, a nostro parere. Va immaginata come una canzone da viaggio, piuttosto commerciale e molto incline alla realizzazione di un video clip. Ritornello da cantare, fresca e spensierata.

“Miss Adventure” la prima sorpresa dell’album, una canzone che non si ricollega a nient’altro nel catalogo della band, molto allegra, un mid-tempo spedito con cori efficaci e presenti che riempono molto il ritornello. Bello il bridge con dei cori che rimandano agli aah-aah – qui più provocanti – di “Thunderstruck”.

“Dogs of war” il primo esempio di brano chiuso un pò in fretta, con un attacco simile a “War machine” ma con un’atmosfera meno cupa ed un andamento più martellante. Non è una canzone “filler”, ma nemmeno una hit.

“Got some rock’n’roll thunder” è brano allegro, oseremmo dire “ciondolante”, ed in linea con l’ultimo album “Black Ice”. In stile “AC/DC 2008”, si potrebbe prestare molto ai live, complice la sua cantabilità così come gli stacchi all’inizio, con dei rapidi botta e risposta. Cliff ci esalta con dei bei licks durante le strofe. Il mix è decisamente “alla Black Ice”, solo un po’ più asciutto. Finale in fade out. Invoglia al riascolto.

“Hard Times”: ogni disco degli AC/DC deve avere un brano o un rimando al blues, sono le origini, i “maestri dei maestri” e questo sarebbe stato un ottimo brano per “Ballbreaker”, o una perfetta controparte di “Boogie Man”. A sentire il riff alla John Lee Hooker, sembrerebbe qualcosa sfornato direttamente da una jam session. Molto semplice ma reso efficace dal tocco tipicamente blues-Angussiano.

Con il prossimo brano a nostro parere si giustifica parte dell’acquisto dell’album: una vera sorpresa, “Baptism by fire” un’evoluzione stilistica notevole, forse opera di Malcolm Young, un riff più elaborato del solito, un’atmosfera di puro rock’n’roll, ma che in questo ambito, con la sua dose di freschezza è davvero un colpo da maestro. La chicca di quest’ultimo lavoro. Up-tempo alla Safe in New york city. Meno cupa. Riff articolato. Charleston della batteria aperto e molto squillante. Tipica canzone da spararsi in macchina ad alta velocità, con una bella donna di fianco. Da suonare almeno 3-4 volte di fila.

“Rock the house” è un’altro brano “diverso”, molto classic rock e che esce per un pò dagli schemi. Peccato che il refrain non ne segua le piccole innovazioni e ci riporti in territori già battuti. Se sviluppato un po’ più a fondo siamo sicuri sarebbe diventato davvero un grande pezzo. Riff iniziale alla Led Zeppelin, che lascia comunque molto e piacevolmente sorpresi.

“Sweet Candy” ci riporta allo stile “Black Ice” , potrebbe esserne una palese b-side: un riempitivo – forse qui possiamo dirlo – che non colpisce particolarmente. Non lascia più di tanto il segno, se non per batteria e basso dritti e pulsanti per tutta la canzone. Difficile prendere appunti, vista la non originalità. Voi, ad esempio, cosa avreste scritto al primo ascolto di “Send for the man” ?

Il colpo di coda “Emission Control”, che chiude i circa 30 minuti di durata complessiva, torna sui territori dei riff articolati che danno un sapore di novità, e in questo caso anche un bel chorus allegro da cantare. Riff ben strutturato come per “Baptism by fire”, con andatura vagamente alla “The Honey roll”. Tipica canzone da suonare live in arene. Termina in fade out.

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Il mix complessivo ricorda molto quello di Black Ice (forse anche complice il medesimo produttore Brendan O’Brien). Come abbiamo già accennato certe canzoni avrebbero potuto benissimo essere aggiunte a quest’ultimo. Però c’è più groove, più spensieratezza. Una batteria squillante per tutto il disco, accompagnata dal basso netto e presente.

Brian è in forma. Il suo “nuovo” stile di canto è come per il precedente lavoro: pochi “strilli”, ma voce graduata e ben gestita, modulata in modo da accompagnare perfettamente l’andamento dinamico di ogni brano. Senz’altro il tutto facilitato dall’accordatura mezzo tono più in sotto rispetto alla standard (tranne per Playball).

Sempre a differenza di Black Ice, “Rock or Bust”è molto più di stampo “americano”, con ritornelli per la maggior parte allegri, freschi, che durano per tutto l’album. Insomma, una nota senz’altro positiva: il piede batte sempre, per riassumere sinteticamente. 11 canzoni che vanno via dritte, ma non ci sono ritornelli o riff che però lasciano particolarmente il segno, in modo indelebile. Piccola nota: gli assoli sembrano improvvisati al momento, e non hanno particolari melodie guida. Una mancanza che, a parte rare eccezioni, si trascina da prima di “Black Ice”, ed era tutto sommato prevedibile. Come “concept” potrebbe essere abbinato a “Fly on the wall”. Tre-quattro pezzi che si ricordano più di altri, ma i restanti, pur non essendo “fillers” lenti ed imbarazzanti come le “Damned” o “Come & get it” in Stiff upper lip, non spiccano per originalità. Brani mid-tempo tranne “Baptism by fire”, con un po’ di pepe in più.

Stevie Young fa un buon lavoro, fedele e impeccabile nel prendere le veci dello zio, la cui mancanza però pesa irrimediabilmente sulle sorti finali dell’album. L’assenza di Malcolm Young si percepisce, l’eccessiva brevità di alcuni brani, vedi “Playball”, è data sicuramente dalla mancanza di colui che, essendo l’anima musicale della band, è sempre riuscito a trovare quell’idea, quell’intuizione, spesso piccola ma a volte geniale, che ha permesso alla gran parte degli album precedenti di non stancare, ma anzi, rinnovare la fiducia dei fans e anche (con la collaborazione delle case discografiche) di trovarne di nuovi. La presenza compositiva del solo Angus rende l’album un eccezionale e ammirevole esercizio di stile, un saggio musicale derivante da un’esperienza e da un bagaglio infinito, da colui che ne è probabilmente il massimo esponente del genere. Certamente non tutte le idee di questo album saranno ex novo, Malcolm avrà di certo lavorato tempo addietro a qualche riff, ma siamo sicuri che anche la sua assenza in studio abbia pregiudicato il disco, essendo mancata la “guida” principale. Se proprio vogliamo toglierci un sassolino dalla scarpa, “Rock or Bust” da l’idea di essere stato “chiuso” un pò in fretta, ragionato e suonato quasi di botto, e qui, rifacendoci all’espressione che abbiamo usato prima, va apprezzato come un vero “esercizio di stile”.

Qui scaturiscono anche dei dubbi azzardati, che un disco dato alle stampe in queste condizioni senza Malcolm e con un Phil Rudd alla deriva non sia un prodotto realmente genuino, ma più che altro un lavoro da portare a termine per rispettare obblighi contrattuali, che sebbene sia una prassi consolidata e non abbia nessuna connotazione negativa (visto anche il desiderio di Mr. “Riffmaker” di continuare a fare musica), in certi ambiti può essere se non deleteria, un filo sotto le aspettative.

Come tutti i fans sanno bene, gli album degli AC/DC (come molti altri grandi album di rock duro) nonostante l’apparente semplicità e dozzinalità, sono frutto di un alchimia spesso irripetibile, di lunghe settimane di lavoro, spesso in parte spese soltanto per la scelta di un particolare suono o idea di arrangiamento. Necessitano soprattutto di una squadra che, mai come in questo caso, ha sempre giocato sull’importanza dei ruoli di ognuno ma, che venendo a mancare, rende difficile ottenere un risultato finale realmente il 100% di quello che avrebbe potuto essere. Proprio per questo, “Rock or bust” è forse il disco che più va ascoltato senza pretese tra tutto il catalogo della band: volume, birra in mano, ed immensa gratitudine sono più che sufficienti per goderselo ed apprezzarlo appieno.

Buon ascolto!

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