Che le danze abbiano inizio

Dalle inquadrature del live streaming sul sito dell’evento sembrava più una sfilata, mentre assistevo alla diretta in contemporanea con altri utenti di AC/DC Italia: abiti e look stravaganti che appartegono a uomini tutto lifting e alle loro siliconate compagne, arrivati su enormi macchinoni e poi accompagnati all’ingresso da energumeni in smoking, sotto i flash dei fotografi che immortalano espressioni e capigliature in alcuni casi davvero imbarazzanti. Intanto, mi domando per l’ennesima volta quale sia stato il motivo della partecipazione degli AC/DC all’edizione dei Grammys di quest’anno – la cinquantasettesima – non essendo vincitori o partecipanti a nessuna categoria. Sta di fatto che manca veramente poco all’inizio della loro esibizione, che consisterà in un medley di “Rock or Bust” con una versione tagliata di “Highway to hell” e segnerà il loro (ridotto) primo live dopo 5 anni. Che le danze abbiano finalmente inizio.

Gli AC/DC ritornano, lo si può dire ancora con fermezza. E lo fanno come sempre succede nelle prime apparizioni dal vivo, dopo il consueto silenzio di rito: soprattutto si nota un Brian emozionato, così come Angus che scatta più del solito, per stemperare l’eccitazione, questa volta però non azzardando troppi “duckwalks”. Da ora in poi ci sarà Stevie alla chitarra ritmica, come tutti già sappiamo, che insieme a Cliff sembra perfettamente a proprio agio. “Quasi” sorpresa delle sorprese, si riconosce anche una vecchia conoscenza della band: sto parlando di Mr. Chris Slade in persona alla batteria, che tutti abbiamo avuto modo di notare su dei “banali” scatti d’agenzia poche ore fa, mentre il management della band sembrava si stesse impegnando a non farci sapere fino all’ultimo chi avesse preso il posto del turbolento Phil Rudd. Oramai sembra deciso una volta per tutte: è andato in frantumi il suo desiderio di tornare a lavorare con il gruppo, “che piaccia o meno”, come lui stesso ha orgogliosamente dichiarato qualche settimana fa, forse cosciente del fatto di aver perso l’ultimo treno per sempre.

Torniamo all’analisi dell’esibizione. Come dicevo, la comprensibile emozione di Brian si fa sentire sin dalle prime parole. Qualche fraseggio è cantato in modo poco stabile, ma comunque potente e deciso. Insomma, diamoci dentro per questi due pezzi – poi abbiamo finito. Oltretutto “Rock or Bust” non è una canzone semplice, piuttosto “alto” come registro. Come primo brano non deve essere facile da interpretare in tutta sicurezza, soprattutto se ci ricordiamo che Brian ha 67 primavere sulle spalle: non facciamogliene quindi una colpa se in qualche punto il suo cantato appare leggermente forzato. Ci sono comunque altre 1000 variabili che andrebbero prese in considerazione e che molto probabilmente ignoriamo: l’ansia, lo stress e la stanchezza, anche mentale, dovuta a giorni di prove generali, calendari ed orari da rispettare, interviste e chissà cos’altro. Rimango comunque del sentore che eseguire la title track non sia una passeggiata in ogni caso per il nostro – quasi – connazionale. Vedremo.

Cliff è perfetto, non saprei cosa aggiungere. Fa trasparire sempre sicurezza, così come il più granitico neo ri-arrivato Stevie. Lo notiamo anche dai suoi cori nei ritornelli, che a dire il vero vanno e vengono sicuramente per motivi tecnici: la voce stridula dello zio lascia il posto a un cantato più profondo, per quel poco che si percepisce. Sarei curioso di sentirlo all’opera sui brani che comporranno le future scalette. Riguardo all’esecuzione, le chitarre ahimè non sono adeguatamente bilanciate per poterle differenziare con chiarezza. Ma la “botta” di suono c’è comunque.

Chris invece se la ride. Si diverte, come se gli avessero ridato in mano il suo giocattolo preferito dopo 20 anni. Le espressioni che tutti ricordano ci sono ancora, questa volta con qualche ruga in più, così come le due grancasse montate ai lati, suo “marchio” scenico che sicuramente ha fatto piacere a molti rivedere con sorpresa. Il suo drumming – con quel suo charleston caratteristico – è ancora roccioso e dal rullante particolarmente secco ed incisivo. Il groove di Phil Rudd però è un’altra cosa, bisogna ammetterlo, e lo si nota soprattutto sulla rallentata (rispetto alle versioni live) “Highway to hell”. Angus scandisce il tempo giusto con il riff principale, ma dopo qualche battuta sembra proseguire con il freno a mano leggermente tirato: con l’oramai – e dispiace, in fondo – ex batterista, avrebbe reso qualcosa in più anche in questo caso. Dopotutto, Rudd non è secondo a nessuno nell’amalgamarsi con il sound della band grazie al suo portamento, qualunque fan oramai lo ha compreso. Ad ogni modo, meglio così che spedita come ai tempi di “Live at Donington”, per alcuni senz’altro rievocato non appena Slade apre le braccia per colpire le casse ai lati, introducendo il ritornello della canzone, oltre ai suoi pirotecnici finali sui piatti.

Concludendo questa breve analisi, per quel poco che è durata la loro esibizione, in questi AC/DC sembra ci sia più intesa. Più sguardi, più coinvolgimento fra tutti, e anche una certa rinnovata “freschezza” e leggerezza nel loro modo di stare sul palco, anche se si percepisce l’avanzare dell’età – in qualche frangente del cantato – soprattutto per Brian. Non mi meraviglierei se gli spettacoli saranno più brevi rispetto alle due ore a cui ci hanno abituato fino ad oggi. Per il benestare anche di Chris. Sono comunque sicuro che sapranno dosarsi a dovere e capire dove sono arrivati i loro limiti, un lustro dopo il loro ultimo show. In questo tour, ora più che mai, bisognerà assistere senza aspettative, senza pretese, e soprattutto saper perdonare qualsiasi tipo di sbavatura che ci troveremo a sentire senz’altro con più frequenza. Per qualcuno le ultime vicende sono difficilmente tollerabili e forse era meglio smettere, piuttosto che far prendere ad Angus una così grossa responsabilità nel continuare.

Intanto, di alternative a loro, ancora non se ne vedono.

Gabriele
gabriele@acdc-italia.com